Alla Hope’s Peak non si entra pagando un’ingente retta o presentandosi con un curriculum di tutto rispetto. E’ la Hope’s Peak che sceglie te, non il contrario. La speranza (hope, per l’appunto) non si riduce all’essere ammessi: grazie alla formazione ricevuta, la prospettiva è quella di poter ridisegnare il corso della propria vita. L’istituto più prestigioso del mondo non fa altro, del resto: seleziona i talenti più promettenti, li affina, li potenzia e li restituisce alla società, pronti a cambiarne le sorti e illuminare il cammino dell’uomo comune. Non si tratta solo di essere intelligenti: bisogna essere speciali. Nelle arti marziali magari. O nel baseball. Nell’informatica o, perché no, nell’essere otaku in tutto e per tutto.
Makoto Naegi, protagonista della disavventura che stravolgerà per sempre la sua vita, non è nulla di tutto questo. La lettera d’ammissione recapitatagli a casa parla chiaro: è un comunissimo alunno che ha avuto la fortuna di essere stato scelto a caso tra migliaia di altri come lui.
Un favore dalla dea bendata non si rifiuta mai, e il giovane sente già il profumo di un futuro pieno di successi quando varca per la prima volta la soglia della Hope’s Peak.
Qualcosa inizia a chiarirsi solo dopo la prima, indimenticabile, apparizione di Monokuma: inquietante orsetto-robot in miniatura che con tono festoso annuncia al gruppo il suo stato di prigionia. C’è solo un modo per abbandonare la struttura: uccidere uno studente e farla franca nel susseguente processo in cui gli stessi ragazzi dovranno cercare di scoprire l’identità dell’assassino per non essere anch’essi puniti (con la morte ovviamente).
L’atmosfera delirante e schizofrenica si riversa anche nell’art design: eterogeneo (cambia da cut-scene a cut-scene) e dominato da colori acidi. La saturazione e omogeneità delle campiture rende brillante ogni scenario, in un chiaro gioco di contrasto con la pesantezza dei temi trattati. L’assoluta mancanza di riferimenti, non solo per i personaggi ma anche per il videogiocatore, è visibile anche nell’interessante utilizzo di oggetti e artwork bidimensionali in scenari (apparentemente) in 3D. Che si tratti di un titolo traghettato dalla PSP è facilmente ravvisabile in alcuni dettagli poco definiti.
Anche il sonoro si presta al gioco di opposizioni. Temi distesi cadenzano la vita degli studenti. Altri più tesi e ritmati animano i momenti drammatici.
L’ironia permea l’intero gioco e permette a degli studenti potenzialmente banali di emergere e consolidarsi nel cuore del giocatore. Più di una volta mi è capitato di temere per le sorti dell’uno o dell’altro personaggio, rattristandomi per la dipartita di chi credevo invincibile o per la condanna di chi ritenevo integerrimo. Nessuno degli eroi spicca per originalità, ma ognuno di essi ha qualche sfumatura caratteriale nascosta che gli permette di non essere sempre e necessariamente uguale a se stesso. Il cattivo di turno, poi, colui che si cela dietro a Monokuma, è a dir poco “schizzato”, del tutto fuori di testa, ma dotato di una tale coerenza interiore che si eleva ben presto dalla mediocrità, risultando stranamente credibile e persino affascinante. Il finale del gioco, infine, benché un filo troppo surreale e caratterizzato da eccessive spiegazioni, è quantomeno leggibile, chiaro e stimolante quanto basta. Difficile chiedere di più.
COMMENTO PERSONALE
Quel che convince di Danganronpa: Trigger Happy Havoc è la capacità di gestire il complesso intreccio narrativo senza scadere quasi mai in spiegazioni logorroiche e inutilmente arzigogolate. Nonostante un inizio lento e un ritmo altalenante, la tensione cresce in maniera costante così come l’interesse del giocatore, rapito da personaggi che acquistano ora dopo ora sempre maggiore spessore e da una vicenda paradossale ma credibile e intrigante. La violenza descritta e i crimini efferati commessi sono attenuati da uno stile barocco e fanciullesco, e da musiche fresche e scanzonate. L’interazione, benché limitata e circoscritta da una trama lineare e guidata, raggiunge l’apice durante le “class trial”, che regalano sorprese, colpi di scena e stuzzicanti prove da risolvere. Dover contraddire i propri compagni, svelare gli inganni e smontare le tesi accusatorie o le facili giustificazioni è divertente e appassionante: si usa il cervello, ma senza esagerare. La difficoltà è forse troppo bassa e i mini-giochi offerti risultano piuttosto poveri, ma ogni debolezza strutturale è compensata da scambi di battute e soluzioni narrative brillanti.
Miglior complimento a una visual novel non si può fare, dato che l’intera struttura di questo particolare genere videoludico è basata sulla lettura di dialoghi e sulla risoluzione di pochi ma congeniali enigmi. Danganronpa è poi, a suo modo, un ibrido che miscela a dovere i livelli di tensione emotiva di uno Zero Escape (999 e Virtue’s Last Reward), le indagini e i dibattiti in aula di un Ace Attorney, e le istanze omicide di un Battle Royale, creando un contesto peculiare, giocato all’interno della rinomata accademia Hope’s Peak, dove alcuni studenti imprigionati tentano di sopravvivere uccidendosi a vicenda.