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planetarian ~the reverie of a little planet~ – Recensione

Nelle visual novel classiche si è soliti prendere delle decisioni, intraprendere una route, attivare determinate flag, e scoprire l’impatto delle scelte compiute sulla storyline rispetto ad altre, improvvisandosi in un certo senso registi, e mandando avanti la trama in base alle proprie preferenze. Non è il caso tuttavia di Planetarian: The Reverie of a Little Planet, al contrario: il titolo ci pone innanzi ad un setting e ad uno sviluppo ben definiti, e l’unico compito che rimane al giocatore è far scorrere le schermate di testo come fossero le pagine di un libro, salvo l’ovvia gestione dei file di salvataggio.

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Sebbene la presentazione onirica e dal piglio malinconico suggerirebbe altrimenti, Planetarian: The Reverie of a Little Planet ha ben poco da spartire con la media del genere, o con gli standard di Key per intenderci, esordendo senza preamboli con un incipit assai bizzarro per una novel espressamente dialogica, che potrebbe lasciare abbastanza perplesso un lettore occasionale, che magari si aspettava di sedersi nuovamente tra i banchi di scuola in attesa del fatidico incontro con il destino. Niente slice of life, relazioni sentimentali o commedia slapstick dunque, nel visionario Planetarian si viene catapultati invece in un remoto futuro post-apocalittico, dilaniato dalla guerra atomica e dall’uso profuso di armi chimiche sui maggiori centri cittadini.

Non a caso la storia si focalizzerà non tanto sulla sua figura, quanto sulla desolata realtà che lo circonda: i pochi superstiti sopravvivono di stenti nelle zone rurali, le città, ora abbandonate e in rovina, sono setacciate giorno e notte dai droni sguinzagliati nel corso del conflitto e ancora attivi, e l’aria è carica di radiazioni e appesantita dallo scroscio incessante della pioggia acida, un setup molto interessante, che agisce in ugual misura sia da sfondo alla vicenda che in vece di “antagonista”. Il ritmo della narrazione è infatti lento e pregno di descrizioni dettagliate, amalgamate tuttavia con grande perizia al canovaccio di base, così da non lasciare nulla al caso, senza risultare in qualche modo pedante o frammentata; ci viene presentato solo ciò che è funzionale alla trama, utilizzando tra l’altro uno stile semplice ma efficace, vuoi che sia un dettaglio apparentemente insignificante, dissezionato e poi minuziosamente ricomposto nella mente del lettore, o un concetto ripetuto con insistenza più volte, a sottolinearne l’importanza, esplicita o meno.

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Il nostro “eroe” è un Junker, uno tra i pochi temerari che osano avventurarsi nelle cosiddette Città Sarcofago, alla ricerca di eventuali risorse scampate alle intemperie e agli altri predoni. La sua svolta, che coincide grossomodo con il nodo centrale dell’esperienza, ha inizio con il suo ingresso in un planetario, decadente come il resto degli edifici, ma ancora  alimentato da un flebile flusso di corrente; qui fa la conoscenza di Yumemi, un robot umanoide miracolosamente sopravvissuto all’abbandono del locale risalente a circa trenta anni prima. Le sue fattezze ricordano quelle di una giovane ragazza, e il suo modello comportamentale  non è stato “aggiornato” agli avvenimenti più recenti, pertanto il suo atteggiamento e il suo modo di esprimersi sono rimaste quelle di una servizievole e accomodante lavoratrice del posto, ligia al dovere, in perpetua attesa di nuovi clienti, e disponibile a qualunque loro richiesta, purché in linea con i suoi processi logici.
Yumemi è petulante, le sue chiacchiere senza fine hanno tutte un unico filo conduttore, e ai suoi occhi sintetici il Junker malconcio e scontroso è solo un cliente (o meglio, IL cliente) bisognoso di attenzioni, per il quale tenta più volte invano di chiamare il servizio medico, consigliare negozi per distrarsi stampando buoni sconto o ponendogli domande che poco hanno senso in un’era del genere, quando il suo reale cruccio è abbandonare la città prima che i suoi viveri finiscano, e soprattutto senza allarmare le pattuglie. Il loro rapporto è insomma di quelli che arrancano a decollare, ma con il lento progredire della vicenda i due arrivano progressivamente a “capirsi” l’un l’altro, sviluppando una curiosa alchimia, percepibile anche dal lettore grazie all’ottima caratterizzazione e alla narrazione impeccabile; il Junker che dopo il disappunto iniziale si rifiuta di voler abbandonare l’area senza prima aver riparato il proiettore principale, il robot che lo assiste come meglio può, distraendolo più che altro dal lavoro, ma anche dalla pioggia che corrode incessantemente un pianeta alla deriva, il planetario si trasforma in un eremo per due anime smarrite incontratesi per caso, e che ora condividono lo stesso fato, sebbene abbiano davvero poco in comune l’un l’altro.

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COMMENTO PERSONALE

Planetarian: The Reverie of a Little Planet è disponibile solo in lingua inglese, quindi se non siete pratici con l’idioma dubitiamo possiate apprezzarlo appieno, ma se non è il vostro caso e avete qualche risparmio da parte (e un bel pacchetto di fazzoletti a portata di mano), acquistatelo dallo store di Steam senza pensarci due volte. Come le emozioni suscitate da un buon libro non possono essere trasmesse a parole, sulla stessa scia il titolo Key perde di significato se viziato dall’opinione di terzi, pertanto non aggiungeremo altro; a Yumemi la parola.

 

Consigliato | Non consigliato

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